L’Isola che c’è

Seconda rotonda a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al Mulino.

C’è poco di fantasioso e molto di fantastico in una tradizione che quest’anno compie il suo cinquantesimo anniversario: la fiera del riso di Isola della scala.

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Isola è la tipica cittadina della Bassa veronese: strade regolari, campanili che si stagliano tra i tetti bassi del centro e tutto intorno distese di campi pianeggianti coltivati. Isola però non è solo questo. E’ una delle capitali del riso italiano, patria del consorzio di tutela del Riso Nano Vialone Veronese , varietà unica di cereale che si può fregiare del titolo di primo in Europa ad ottenere il prestigioso marchio d’Indicazione Geografica Protetta dal 1996.

La risicoltura da queste parti comincia a prosperare già dalla prima metà del ‘500. Ormai da cent’anni la Serenissima Repubblica di Venezia domina nella pianura scaligera e proprio grazie al Doge, che tiene con attenzione le terre da lui governate, che si affronta il problema delle bonifiche. Da un lato liberando le terre paludose dall’acqua e dall’altro rendendo irrigui i terreni sterili. Questo impegno assunse sempre maggior rilievo con la coltivazione del riso. La nobiltà locale, veneziana e non solo, investì ingenti capitali per l’acquisto delle terre, bonificandole e mettendole a coltura del nuovo cereale, parte del quale veniva infine spedito alla volta delle tavole della Repubblica.

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ph.credit: duecoccinelleincucina.blogspot.it

Terreno fertile e generoso quello dei 24 comuni scaligeri in cui è possibile coltivare questa specifica tipologia di riso. Tutto grazie alle acque di risorgive, acqua pura dei rilievi che affiora in tutto il territorio inondando e nutrendo le risaie della zona e che proprio da questa purezza trae le sue preziose caratteristiche. Chicco bianco dalle dimensioni medie, forma tonda e semi-lunga, dente pronunciato e testa tozza, è riconoscibile per il grande potere di assorbimento di sapori dei condimenti e alla particolare tenuta in cottura ed è noto ai palati fini di ogni latitudine come il re dei risi da risotto, specialmente con ricette a base di carne, pesce e verdure.

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Con queste premesse, e con un appetito galoppante, mi sono approcciato a questa fiera.

Un tendone da far invidia al più classico dei circhi Orfei, stand pieni di amore e passione per il proprio prodotto e loro, gli anziani della Bassa. Forgiati nella polenta e cultori dell’antico cereale dalla forma ellittica. Ce ne sono ovunque, li vedi sorridenti preparare e servire dietro i fornelli e gustare il loro piatto con impazienza su banconi chilometrici da festa bavarese. Un tripudio di rughe e risotti che profuma di tradizione e orgoglio delle proprie origini.

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Un amore e una venerazione, tramandate di generazione in generazione, che trovano il loro momento più alto in una ricetta unica: il risotto all’isolana.

La ricetta del Risotto all’Isolana, ideata dal Cavalier Pietro Secchiati, rappresenta una tradizione talmente importante che nel 1985 l’allora sindaco del Comune di Isola della Scala la rese ufficiale con una delibera

Ingredienti per 1 persona

½ kg. di riso Nano Vialone Veronese I.G.P.

1 litro di ottimo brodo
200 g. di vitello magro
200 g. di lombata di maiale
80 g. di burro
80 g. di formaggio grana
pepe, sale, cannella e rosmarino q. b.

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Preparazione

Tagliare la carne a dadini, condire con sale e pepe macinato fresco e lasciare riposare per un’ora. Fondere il burro, mettere un rametto di rosmarino, rosolare bene la carne. Cuocere la carne a fuoco lento fino a completa cottura; indi togliere il rosmarino. Fare bollire il brodo, aggiungere il riso mondato e cuocere per 18/20 minuti a fuoco lento; il riso dovrà assorbire il brodo. Condire quindi il risotto con il condimento preparato in precedenza. Completare il Risotto all’Isolana con il formaggio grana grattugiato, profumato alla cannella.

Ok, non era per una persona, era per 5…ma era troppo buono per prenderne un piatto solo.

E poi, se la vogliamo dir tutta, è colpa dei bimbi sperduti se ho la porzione deviata. Ho sempre maledettamente invidiato i loro banchetti dove queste simpatiche canaglie si sfondavano di cibi incredibili alla faccia mia che potevo solo guardare impotente.

Ora  che ho trovato questo posto, questo riso e questa meravigliosa festa, finalmente posso dire di aver trovato il mio banchetto e la mia Isola. E questa volta il cibo c’è per davvero.

Alla faccia tua Carambola.hqdefault

 

Roma gusto Kasher

Ho una grande fortuna e non sempre me ne rendo conto. Ho la grande fortuna di essere nato e cresciuto a Roma. Molto spesso non ci penso, ma a volte, quando attraverso viali, vicoli, piazze e piazzette, sento di appartenere ad un club esclusivo di persone che hanno vissuto e scritto pagine immortali della storia dell’umanità. Una metropoli eterna, multiculturale per natura, dove innumerevoli e grandi popoli hanno lasciato, e continuano a lasciare quotidianamente, il segno della loro identità.

Uno dei luoghi dove il mio orgoglio di appartenere a questa ristretta cerchia di fortunati raggiunge vette altissime è sicuramente la porzione di centro compresa tra l’Isola Tiberina, il Ponte Quattro Capi, il Portico d’Ottavia con l’omonima via ed infine la Piazza delle Cinque Scole, ovvero il Ghetto Ebraico.

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Instaurato da Papa Paolo IV Carafa nel 1555 e completamente demolito tra il 1886 e il 1904, il Ghetto di Roma è popolato dalla più antica comunità ebraica d’Europa ed è la testimonianza a cielo aperto di duemila anni di veri ‘romani de Roma’. Tutto trasuda storia in questa parte della città, e la gastronomia locale ne è l’esempio più eclatante.  La cucina giudaico-romanesca, un’ antica tradizione, fusione di due culture gastronomiche diverse ma compatibili, evolute insieme alla storia e proprio per questo con confini difficilmente delimitabili l’una dall’altra ma che hanno prodotto cibi tra i più apprezzati dai romani e non.

Ovviamente, non ci si può immergere nella cucina del Ghetto romano senza tenere presenti le norme alimentari che regolano la relazione tra ebraismo e cibo.  Kasher (o Kosher), che significa ‘permesso’, ‘adatto’ è il termine che sta ad indicare ogni cibo idoneo e l’insieme delle regole alimentari ebraiche, che provengono direttamente dai precetti della Torah, detto Kasherut.  Elencare ogni regola del Kasherut metterebbe a dura prova anche un mago della sintesi, quale io non sono, ma basti ricordare che ogni piatto della tradizione giudaica è stato creato con rigoroso rispetto di tali norme e la cucina giudaico romanesca, per forza di cose, non è esente da questo discorso.

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Oltre che dalle osservanze religiose, la cucina giudaico romanesca è la deliziosa conseguenza di sapori mediterranei e di altre tradizioni giudaiche (toscana e iberica) ma anche il frutto di povertà e limitazioni politiche. Eh si, perché gli Ebrei del Ghetto di Roma hanno veramente fatto di necessità virtù. A loro viene fatta risalire la tradizione del brodo di pesce, oggi considerato una prelibatezza, che nasce dalla vicinanza del ghetto romano alla zona più degradata e più sporca della città, attorno al Teatro di Marcello che, durante il Medioevo, si trasformò in sede del mercato ittico di Roma, grazie alla vicinanza del Tevere e del porto fluviale di Ripa Grande. Tutti gli scarti venivano accatastati nei pressi della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria e le donne della comunità andavano alla raccolta delle parti meno nobili del pesce. La cottura con l’acqua era l’unica maniera per creare una pietanza da quegli avanzi e nacque così uno dei piatti migliori della Roma popolare e in particolare del ghetto.

Lo stato pontificio infine nel 1661 stabilì che il pesce autorizzato per le mense ebreaiche dovesse essere quello azzurro, e in particolare le sardine e le acciughe. Questo tipo di pesce, ora tanto pubblicizzato per Omega3 e altre proprietà benefiche, non era ben visto dal governo pontificio e, grazie a  questa geniale intuizione papalina, nacquero gli aliciotti con l’indivia, un tortino fatto di acciughe private della testa e spinate, disposte in una teglia a strati alternati con indivia bianca, cotto al forno con olio e pepe.

Un sentito grazie a Papa Alessandro VII.

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Non vanno poi dimenticati i fritti, materia di cui ogni romano è composto almeno al 50%. Trionfo della cucina ebraico-romanesca, trovano un posto speciale nel mio cuore i carciofi alla giudia. I carciofi cimaroli, variante migliore del carciofo romanesco, provenienti dalla zona che va da Ladispoli e Civitavecchia, venivano preparati dalle donne ebree e cucinati come pietanza spezza digiuno del Kippur, dopo le tradizionali 24 ore di preghiera dedicate all’espiazione. Una volta tolte le foglie esterne, messo a testa in giù, aperto a rosa e fritto la vita vi sembrerà meno dura da affrontare.

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Il vero fiore all’occhiello però, a mio goloso avviso, è la pasticceria giudaico-romana. Monumento di questa tradizione e ambasciata del gusto israelitico in salsa romana è ‘il forno del Ghetto’: Boccione.

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Rigorosamente kasher e rigidamente femminile da sempre, questo forno esprime quanto di meglio può offrire la cultura gastronomica ebraica a Roma. Dolci per tutti i gusti, le ore e le festività (ovviamente ebraiche). Si può cominciare con una colazione a base di cornetti giganti e veneziane (brioche con la crema), proseguendo nel pomeriggio con bruscolini caldi, semi di zucca incrostati di sale che sporgono dalle tielle controllate a vista dalle temibili Signore Boccione. Il venerdì (prima dello Shabbat, giorno di riposo) abbiamo la treccia con zuccherini e ciliegie candite, la challah (il pane del sabato) e i “ginetti”, biscottoni dall’impasto semplice – appena aromatizzato al limone – eccellenti da spezzettare e affogare nel caffellatte. Proseguiamo con la cosiddetta “pizza di beridde”, ovvero panetti dolci preparati con canditi, mandorle, pinoli e uva passa. Il nome viene dall’uso che se ne fa prevalentemente in occasione della nascita di un figlio maschio. Stesso uso per i “biscottini”, dolcetti duri a forma di rondelle, delizia di mandorle, cacao, e cannella.

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Il mio cuore però va a loro, le crostate, il sogno proibito di tante giornate affamate. Torte chiuse, ricoperte di pasta, con ripieno di ricotta e marmellata di visciole o ricotta e cioccolato. Da sole varrebbero il prezzo del biglietto, ce ne fosse uno da pagare.

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Ogni festività fa del forno Boccione il protagonista indiscusso del Ghetto. Ad esempio durante Purim (il carnevale ebraico, per essere sbrigativi) a farla da padrone è il ‘tortolicchio’, mattonella dura di impasto, con miele, mandorle e zuccherini all’anice. Dal 23 al 30 Aprile sarà invece Pesach  (la Pasqua ebraica, durante la quale è proibito il consumo di cibi lievitati) e già si comincia a fare la fila per le ciambellette (biscottini dall’impasto semplice di uova, zucchero, farina e olio), gli amaretti di pasta di mandorle, il pan di spagna (non lievitato) e le famose ‘pizzarelle col miele’, le croccantissime polpette di azzima tritata impastata con cacao, pinoli, uva passa e tuffate nell’olio bollente.

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Passeggiando tra le vie di questo micro universo non puoi non pensare alle difficoltà che la storia ha messo davanti al quartiere e ai suoi abitanti, ma proprio grazie all’analisi delle loro tradizioni gastronomiche ci si rende conto di quanto questo popolo si sia adattato ogni volta alle circostanze più difficili.

Un processo di resilienza culinaria che mi fa sentire ancora più fortunato di appartenere, insieme a loro, a questo meraviglioso club esclusivo chiamato Roma.

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Semplicemente Marche

“Marche di lusso”, no ma che c’entra il lusso…”Marche Pasquali”, no poi sembra il solito articolo su quale uovo tra Lindt e Kinder sia meglio…come fare allora a descrivere un luogo dove puoi trovare storia, arte, cultura, natura e cibi meravigliosi in un titolo? La risposta è nel  luogo stesso…semplicemente  Marche!

Regione appartata, sottovalutata e poco pubblicizzata, forse è stato proprio questo il segreto della sua bellezza, immutata nel corso della storia.

Per vivere al meglio un territorio come questo, ho scelto come base di partenza un piccolo borgo sconosciuto: Borgo Montemaggiore al  Metauro.

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Caratteristica principale del piccolo borgo è quella di essere un albergo diffuso.  Il concetto non è ancora noto a tutti.  In pratica è una forma ricettiva, abbastanza recente (riconosciuto in modo formale per la prima volta in Sardegna con una normativa specifica che risale al 1998),  definibile come “paese albergo”,  ovvero dove  piccoli centri storici e borghi, insediamenti rurali o montani, diventano le “camere” dei visitatori di turno.  Un modo di fare turismo veramente sostenibile e che dà una nuova opportunità di rilancio a realtà che altrimenti rischierebbero abbandono e degrado, creando una perdita enorme per il patrimonio culturale italiano.

Il piccolo borgo, però, ha anche avuto un passato strategicamente importante.  Da qui infatti, Churchill (cui è dedicata la piazzetta principale) e i suoi generali monitoravano la situazione della sottostante linea Gustav. Fortunatamente il paesino è rimasto intatto e la vista sulla valle del Metauro è sensazionale.

Sensazionale più o meno quanto il menù al tartufo della locale locanda, facilitata nella selezione del pregiato tubero dalla prossimità ad uno dei centri più importanti del tartufo mondiale:  Acqualagna.

Dopo essermi leccato i baffi con l’ennesima scorpacciata di tartufi, il viaggio nella valle del Metauro è proseguito verso il gioiello del rinascimento italiano, Urbino.  Incastonato nella lussureggiante campagna marchigiana, la cittadella mi accoglie scrivendo il mio nome in ogni loggia, portone o insegna. Dopo una momentanea sensazione di onnipotenza, ovviamente, riconduco il tutto alla figura del condottiero Federico da Montefeltro, che fece grande il Ducato di Urbino, facendo diventare questa piccola perla d’Italia faro d’Europa nell’arte e nella cultura del nostro Paese, anche grazie al suo concittadino non meno noto, Raffaello Sanzio.

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Urbino, per mia grande gioia, oltre a regalare sollievo all’anima ha donato sollievo anche alla mia meno nobile pancia. Tipicità del luogo sono le cresce sfogliate, deliziosi dischi di farina, sale, pepe, uova e strutto che qui hanno avuto i natali.  La leggenda narra che il sole, sedotto dalla bellezza di  Urbino, un giorno volò tanto in basso da impigliarsi in una delle torri del palazzo Ducale.  Fu la forma infuocata dell’astro e le stille d’oro che ne cadevano, mentre cercava di liberarsi, ad ispirare ad una giovane fornaia, detta la Fornarina, una focaccia sfogliata.
Questa, per la leggera lievitazione e il desiderio di volare in alto, fu chiamata “Crescia”…e sappiate che col ciauscolo e la “casciotta” di Urbino (altre meraviglie made in Marche) è la morte sua.03-Cascione-cotto-e-mozz

Pasqua on the road…e Pasquetta pure. Rotolando (anche non solo figurativamente) verso sud, tra la riviera delle Palme e i monti sibillini, si erge la bella Ascoli. Bella è un attributo riduttivo per questa città dal centro storico unico, dove il travertino la fa da padrone quanto, se non più di Roma e le piazze, architettonicamente uniche, fanno il verso ad eleganti salotti in pietra.

Ascoli, però, è famosa soprattutto per una sua prelibatezza.  E ci potevamo far mancare una quintalata di olive ascolane?  Migliori, famosa gastronomia produttrice di olive, gioca facile con il nome. Effettivamente però sono le migliori…tradizionali, al tartufo e anche versione ‘veggie’ quinoa e ceci. Una festa si scatena al primo morso nel mio palato e non ha voglia di smettere.

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Riesco a far placare il party papillare solo in un modo, ovvero bevendo caffè.  E questa volta si può ben dire, che caffè.  Antico caffè, che incornicia Piazza del Popolo, Il caffè Meletti è un tempio.  Rara espressione di liberty nelle Marche, da qui sono passati personaggi del calibro di Stuparich, Zandonai, Badoglio, Sartre, Hemingway e Trilussa che, goloso dell’Anisetta Meletti, scrisse “Quante favole e sonetti m’ha ispirato la Meletti”. Quasi scordavo…il liquore tipico del Caffè è, per l’appunto, l’Anisetta Meletti. Prodotto fortemente legato al territorio, le piante di anice (Pimpinella Anisum) dalle quali si ottengono i semi utilizzati nella distillazione sono coltivate nei terreni argillosi delle colline marchigiane e rendono unico il suo sapore. Silvio Meletti, perfezionò e migliorò il liquore della bottega della madre nel 1870 e dopo 140 anni la sua Anisetta ha ancora la stessa formula.

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Il caffè melettino (caffè, crema di anisetta e panna) ha finalmente placato la sete di olive ascolane e al contempo mi ha trasmesso nostalgia di tempi andati anche se mai vissuti. Un po’ come quella sensazione di nostalgia che mi ha pervaso nell’ultima tappa del viaggio, Recanati, patria del Sommo Leopardi, culla della letteratura italiana, che dona scorci infiniti ed ermi colli dai quali contemplare la bellezza di una terra unica e poetica.

E il naufragar m’è dolce in queste Marche.

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Peace&Food

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Berlino. Alex Assali, un rifugiato siriano per ringraziare l’ospitalità del Paese che l’ha accolto, cucina cibo della sua terra per i senzatetto della città.

Milano. Mohammed, rifugiato siriano, 35 anni. Prima che la guerra scoppiasse, aveva una azienda di catering e oggi, grazie anche ai volontari di Sos Emergenza rifugiati Milano, è un personal chef che porta a domicilio i profumi e i sapori del suo popolo.

Dal 2011 lo Stato di Alex e Mohammed è martoriato da indicibili violenze, dimenticato dalla comunità internazionale e oggetto di bieche polemiche su quale nazione debba, o no, ospitare questa popolazione in fuga dalla sua stessa casa.

Ma la terra di Alex e Mohammed non è questo.

Sotto le macerie, cui i nostri occhi sono ormai tragicamente abituati a vedere , vi è una delle Nazioni con più storia al mondo. Un Paese cui appartengono città millenarie e tradizioni antiche. Proprio tra queste ultime, trova un posto di rilievo quella gastronomica siriana, facente parte della cucina Levantina,  tradizionale nelle zone del Medio Oriente che vanno dalla Turchia meridionale fino ad arrivare ad Israele.

Influenzata da quella ottomana e francese,  la cucina siriana ha tratto profitto dell’apporto di altre cucine per migliorare ed aggiungere tocchi estetici ed un gusto tipico ai numerosi piatti propri.  Il risultato è una grande varietà in gusto ed in colore, fatta di materie prime semplici e prodotti freschi,  che va ad allinearsi alla regola coranica: “Nutritevi di ciò che la terra produce di buono e sano”.

Attorno alle due principali città,  Damasco e Aleppo, sono nati i due filoni culinari principali del Paese. Chammyyeh (damasceno,  dalla gente di Damasco chiamata Cham) è l’aggettivo che identifica i piatti della capitale. Tipico è Il Fetteh chamiyyeh ,  piatto a base di pane siriano raffermo o grigliato, fatto a pezzetti, dove vengono disposti ad arte carne e legumi.  A completamento del piatto si aggiunge burro arabo fuso ed olio d’oliva, decorando il tutto con pinoli e pistacchi. C’è poi un vero e proprio culto per gli antipasti (di cui sono fedele discepolo),  le Meze o Mezze, composti da un grandioso assortimento di piatti a base di verdure crude e cotte come melanzane,  insaporite da cipolle e pomodori, barbabietole o zucchine.  Le insalate proposte vengono generalmente condite con olio d’oliva e succo di limone o aceto; per le Mezze a base di verdure cotte viene aggiunto, specie per le olive e le melanzane, pepe o harissa, una tipica salsa derivata dal peperoncino.

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Aleppo rappresenta la punta d’eccellenza, con una gastronomia ritenuta tra le più raffinate del Medio Oriente.  Il Kebbeh aleppino è un piatto composto da burghul (grano essiccato siriano),  carne tritata e spezie, dalla forma di un arancino. Può essere cucinato in differenti  modi: come fritto nell’olio d’oliva o grigliato e, in quest’ultimo caso,  viene presentato in  forma di  hamburger.  Rinomati  i dessert, conosciuti per la particolare composizione e per le forme originali, nonché per la ricca farcitura e l’aroma. Vengono generalmente messi a marinare nell’acqua di rose oppure nei fiori d’arancio. L’ Al-Mabroumeh (pasta farcita di pistacchi di forma cilindrica e rosolati su caramello liquido) ne è un calorico esempio.

Per raccontare la cultura gastronomica delle due città ho volutamente utilizzato  il presente come forma temporale. Va però aggiunto un tempo verbale molto più importante: il futuro.  Le due città, simbolo di recenti orrori, torneranno ad essere punti di riferimento per la storia dell’uomo come lo sono state fino ad oggi e la mia speranza, che è anche la mia convinzione, è che un giorno non lontano, le donne e gli uomini come Alex e Mohammed torneranno in una patria serena, risorta dalle macerie della guerra contribuendo alla rinascita della Siria, anche grazie ai loro grandi piatti.

Che noi, ovviamente, assaggeremo.

 

Tartufi a vapore

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Siena 2016, ore 8:40, binario 1. Lì, come una caffettiera sbuffante, mi attende una fiera locomotiva del 1915 con lussuose carrozze centoporte che si prepara a trasportarmi nella Val d’Arbia, lembo di terra che si estende tra la città del Palio e la più conosciuta Val d’Orcia, diretto a San Giovanni d’Asso, città del Tartufo delle Crete senesi.

Una natura brulla e incontaminata, disseminata di foreste e vigneti a perdita d’occhio, con colline dolcemente ondulate ornate da cipressi isolati, fa da sfondo al mio personalissimo viaggio nel tempo a bordo del treno a vapore, un nuovo/antico modo di conoscere un territorio che va visitato con una velocità d’altri tempi.

La dolce traversata del sud-est senese ha fatto breccia nel mio cuore. Al mio arrivo in questo piccolo borgo splendidamente conservato, dove il tempo pare essersi fermato al Medioevo circondato tutt’intorno dal paesaggio lunare delle colline argillose, la breccia si era ormai aperta anche nel mio stomaco.

Un assaggio di pecorino con miele, tutto rigorosamente al tartufo locale, mi ha dato la forza per fare un giro nel piccolo Museo del Tartufo, unico nel suo genere, dove attraverso esperienze  sensoriali si cerca di far vivere al visitatore il mondo del delizioso tubero toscano e dei suoi protagonisti: il tartufaio e il suo fedele lagotto.

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Meno famoso dei suoi cugini piemontesi d’Alba e marchigiani di Acqualagna, il Marzuolo è un tartufo dal sapore intenso, più piccolo per dimensione, meno nobile e costoso ma non per questo meno buono. Non c’è da farsi ingannare però: il prezzo è dato soprattutto dal fatto che se ne trovano in grandi quantità, grazie alla bontà del territorio e alla saggia legislazione, portata avanti dalla Associazione Tartufai Senesi,che regolamenta le stagioni di raccolta nel rispetto del riposo del terreno e dei cicli naturali.

Purtroppo, mi sono dovuto sacrificare assaggiandone una cascata sopra un tagliolino (qualcuno doveva pur farlo), e tra una forchettata e l’altra ho percepito quanto un prodotto possa essere simile alla sua terra. Rude, un po’ piccante e intenso, insomma un po’ come questa parte d’Italia che mi ha regalato una giornata splendida in un posto senza tempo.

Anzi, appena in tempo.

IN CARROZZAAAA!!!

 

 

 

 

Colazione con la storia

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Alea iacta est. Ok, il dado è tratto…ma da cosa cominciare per parlare di storie di cibo? Non so. Devo valutare bene. Va bene ora ci pensiamo…facciamoci un caffè e buttiamo giù qualcosa.

Entro in cucina e la storia mi si para davanti: 160 cm e 91 anni di pura nonna DOP, intenta a fare colazione, circondata da prodotti che hanno fatto la storia dell’imprenditoria alimentare locale e nazionale.

Tre meraviglie, una classe ’24 (nonnAnna), i biscotti Gentilini, classe 1890 e la Moka Bialetti, classe 1919 (anno di nascita della Bialetti, la Moka è del 1933…formalmente più giovane di mia nonna, ma non diciamoglielo per non farla sentire troppo anziana).

Pezzi d’Italia che è cambiata. Di abitudini e di stili di vita stravolti, di tempi lenti e di innovazioni coraggiose e geniali che hanno accompagnato milioni di persone, ogni giorno, per un secolo.

E’ quasi un dovere, per un cittadino della città eterna, celebrare il biscotto Gentilini nel quotidiano rito del risveglio. Che sia un Osvego, un Novellino, un Brasile o un Vittorio…è un Gentilini, e tanto basta. Ma le mani che hanno creato queste delizie non hanno natali romani. Nato a Vergato nel 1856, il romagnolo Pietro Gentilini si trasferisce nella capitale dell’allora Regno d’Italia e apre il suo primo laboratorio per la produzione di pane e biscotti. L’intuizione del perfezionamento degli Osvego (italianizzando l’allora diffuso biscotto inglese “Oswego”) è stato l’inizio del successo di questa azienda. Da allora i cambiamenti sono stati molti: dal trasferimento dal centro storico alla sede in Via Tiburtina, all’introduzione di biscotti sempre più al passo coi tempi e le esigenze dei consumatori, fino al più  recente acquisto del nuovo stabilimento di Castel Madama per una nuova linea di fette biscottate. Sono passati 125 anni, ma la Gentilini non ha perso le sue origini. Nel veloce e frenetico mondo moderno, una storia di famiglia che con i suoi prodotti e il suo modo lento e sapiente di fare le cose continua a regalare gioie quotidiane ai romani di tutte le età.

Ma i biscotti Gentilini, pur essendo eccezionali biscotti secchi…non li pucci?

E allora vai con l’orgia di sensi che solo un caffellatte con caffè della Moka sa darti. La recente scomparsa del “baffo” Bialetti mi ha colpito nel profondo. Quanti litri di caffè avrò bevuto grazie a quest’uomo e a suo padre (Alfonso Bialetti, vero padre della caffettiera italiana), e quanti ne berrò ancora? La risposta è impossibile da dare ma una cosa è certa, ne berrò il più possibile. Il sapore di un caffè fatto nella più famosa macchina da caffè al mondo è un qualcosa di inarrivabile. Non esiste cialda che tenga. Ogni sorsata è un’esperienza e lo dobbiamo solo a questa azienda che da un’officina di semilavorati in alluminio di Crusinallo (Verbania) ha portato il design e l’innovazione italiana in tutto il globo e ha permesso al caffè italiano di distinguersi da ogni altro. Bialetti non ha creato un prodotto, ha creato un rito, un bisogno, una consuetudine. Ha legato un cognome e un’azienda ad un gesto che rende piacevolmente orgoglioso un italiano, soprattutto se appassionato di Food&Beverage come me.

Al momento della scomparsa di un personaggio così, ti rendi conto di quante cose dai per scontato tutti i santi giorni.

Per questo sono contento di poter fare del mio primo articolo su questo blog, un umile omaggio a questi uomini che hanno permesso a mia nonna e al sottoscritto di celebrare una colazione da Leone.

BanalEATà

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L’ennesimo Food Blog? Spero anche io, come chiunque stia leggendo, che non sia così. Non se ne può più. Un’invasione quotidiana di opinion leader, gastro-chic, casalinghe in grinta ai fornelli ed esperti bacchettoni pronti a giudicare tutto e tutti all’interno del (ormai non più) semplice e povero mondo del Cibo.

E allora? Che ti metti a fare dopo aver detto ciò? Ti metti a parlare di cibo anche tu?

Beh diciamo che la passione va oltre l’orgoglio e si, chissenefrega, parlerò di cibo anche io. Dovrò in qualche modo giustificare il quintale (e oltre…) che porto con eleganza da anni.

Cercherò di farlo però nel modo che più mi piace, ovvero nella maniera meno formale e “fighetta” possibile, andando soprattutto a cercare di affrontare il tema del “Food” dal punto di vista della qualità dei prodotti e delle storie meravigliose dei produttori, condendo il tutto con una spruzzata di approfondimento sul territorio che origina certe meraviglie della nostra tradizione cultural-culinaria.